Sulle scogliere di marmo di Ernst Jünger (1939) è un gioiello d’invenzione letteraria, perché
ha attraversato più della metà del Novecento dritto come una freccia e anche oggi, in cammino
verso il terzo decennio del XXI secolo, prosegue impavido il suo volo, esercitando un fascino
straniante. Romanzo immaginifico e stilisticamente, elegantemente lontano da tutto e tutti, la sua
forza è proprio questa, non essere assimilabile alle forme narrative più o meno canoniche.
Già l’incipit è un modello di rara efficacia, poiché Jünger si rivolge al lettore (“voi tutti
sapete”) come avrebbe potuto farlo un narratore greco (Senofonte) o romano (Cesare), ossia con
tono sentenzioso e descrittivo, ma entrando nel cuore di cose, fatti e personaggi con la lama della
scrittura: una scrittura tagliente che penetra la scorza del mondo per illuminarne gli angoli più
riposti, come accade con la luce che si rifrange sulle nuvole e dà nuova profondità al cielo. Così
accade che vediamo “dentro” molto più di quanto accadrebbe se qualcuno ci spiegasse
pedissequamente qualcosa. Insomma, muta la luce, muta lo sguardo.
Sotto i nostri occhi compare, in un tempo senza tempo perché Jünger confonde con
maestria epoche e riferimenti verosimili, una comunità quasi monastica, dedita allo studio di
manoscritti ed erbari, dottrine e piante rare, che intuiamo essere composta da uomini già
appartenuti ad una sorta di vago ceto cavalleresco.
Lo sfondo è la metafisica Marina grande di Alta Plana, sormontata, per l’appunto, dalle
Scogliere di marmo, di là dalle quali si estendono territori che, gradualmente, immaginiamo
popolati da genti in fermento e minacciose. Così l’eremo nel quale studiano e meditano coloro che,
con banale formula, diremmo di confratelli laici, subisce sempre più l’accerchiamento che si
realizza per l’approssimarsi implacabile di una nube immateriale, quella prodotta dall’ ostilità. Di qui
il pericolo di una deflagrazione degli animi e dei corpi, un’Apocalisse.
Si può leggere tutto, in questo breve romanzo, utilizzando le lenti più disparate o
percorrendo le sue pagine a caccia di una visione nascosta in controluce. All’epoca si suppose che
l’autore (ufficiale dell’esercito tedesco nelle due guerre mondiali ma in odore di eresia rispetto al
regime) trascrivesse in presa diretta l’ascesa del nazismo; il che è plausibile ma non basta: il mito
è tale, difatti, per incarnare ma anche trascendere l’oggetto dell’osservazione e sfidare, così, i secoli.