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Leonardo Sciascia. Tra realismo e critica sociale

Si possono scrivere romanzi gialli che abbiano il solo scopo di fare del buon intrattenimento – di quelli che si leggono soprattutto d’estate, sotto l’ombrellone – invitando il lettore a una caccia all’assassino che proceda grazie alle intuizioni dell’immancabile investigatore, così come si possono scrivere libri di forte impegno letterario e civile che, sotto la veste accattivante del racconto poliziesco, affrontino le tematiche più scottanti e significative del proprio tempo.

È stata questa la scelta di Leonardo Sciascia (1921-1989), uno dei massimi autori italiani ed europei del secondo Novecento che, in capolavori quali Il giorno della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966), Il contesto (1971), Todo modo (1974), Porte aperte (1987), Una storia semplice (1989), ha compiuto una lucida analisi dei più radicati mali italiani: l’esistenza di un potere mafioso che nessuna forza politica ha mai realmente combattuto e sconfitto, la corruzione del ceto dirigente, le relazioni occulte tra politica e criminalità organizzata.

La narrativa di Sciascia rappresenta lo sforzo della ragione di mettere ordine nel caos, risalire alle cause della corruzione e del degrado civile, dare un volto a mandanti ed esecutori di delitti efferati contro lo Stato e le persone fisiche. Ma questa ragione, incarnata da personaggi indimenticabili di poliziotti e funzionari statali onestissimi e soli, è destinata allo scacco: nel marasma italiano, nessun trionfo della ragione è possibile. Infatti, a differenza di quanto accade nel giallo classico, nei romanzi di Sciascia non sempre le ultime pagine svelano un colpevole: l’indagine può non avere soluzione (come in Il contesto) o, se una soluzione c’è (Una storia semplice), non determina una vittoria totale della giustizia. Nel giallo classico, l’investigatore ristabilisce in modo definitivo l’ordine che il delitto ha sconvolto. Nei romanzi di Sciascia, questo non può accadere, perché il male è assoluto e il paesaggio umano che si muove intorno al protagonista è popolato di nemici della verità.

Questa narrativa, ricca di intreccio, di azione, ma anche di riflessioni amare sulle condizioni del paese, deve la sua efficacia non solo alla bellezza delle storie, ma anche alla brevità dei testi e alla semplicità della prosa. Sciascia ha imparato l’arte della scrittura dagli intellettuali francesi del Settecento, si considera egli stesso un erede dell’illuminismo, dunque non concepisce i libri “mattone” e il fraseggio troppo complesso e involuto. Per di più, ha coltivato in gioventù il sogno di una carriera come regista cinematografico (ne resta una testimonianza nel prezioso volumetto Questo non è un racconto, curato da Paolo Squillacioti per le edizioni Adelphi e contenente tre soggetti cinematografici) e dunque, sin dagli esordi, mostra di essere un autore «la cui pagina – come dirà lui stesso – è la più vicina all’azione che si possa immaginare».

Quasi tutti i libri di Sciascia superano di poco le cento pagine e sono scritti in modo semplice e lineare. Questo fa sì che il loro successo sia duplice: vendono centinaia di migliaia di copie e attirano l’attenzione di registi e produttori. Sciascia è stato infatti uno degli autori italiani con il maggior numero di adattamenti per il cinema.

Un modello non trascurabile, insomma, per chi ha voglia di mettersi in gioco come autore.

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